Alla Festa del Cinema di Roma, Roberto Gualtieri rilancia il valore dell’inclusione: il cinema come sguardo che unisce persone e storie, oltre il tappeto rosso
Una sala piena, luci puntate sul palco, il brusio che si spegne. In questo contesto, un messaggio prende forma senza effetti speciali: quello che rende una città forte è la capacità di includere. Non è uno slogan, è una postura. E quando il discorso parte dal cinema, l’attenzione cresce, perché il cinema racconta, ascolta e rimette insieme i pezzi di una comunità.
La Festa del Cinema di Roma non è solo tappeto rosso. È anche il momento in cui Roma si interroga su chi vuole essere. Il tema è concreto: inclusione, rappresentazione, sguardi plurali. Parole spesso abusate, certo, ma qui trovano un terreno reale, fatto di film, personaggi, quartieri, piazze. Il cinema come pratica pubblica, non come esercizio per pochi.
In questo clima, il sindaco Roberto Gualtieri sceglie una linea chiara: lessico semplice, concetto netto, zero giri di parole. La città che accoglie non è quella che rinuncia a sé stessa, ma quella che sa raccontarsi meglio. E il set migliore, oggi, è proprio una rassegna che porta sullo schermo storie diverse, con la pretesa gentile di farci allargare lo sguardo.
Solo dopo arriva il cuore del messaggio, affidato a una frase che non ha bisogno di spiegazioni ulteriori.
Gualtieri dice: “Chi non è inclusivo in realtà probabilmente proietta anche una difficoltà ad accettare se stesso. Quindi l’inclusività è un valore importantissimo. Il cinema spesso, col suo sguardo, ci aiuta a capire la varietà che c’è, che caratterizza Roma. Ma siamo tutti uomini, tutti fratelli, tutti uguali. Al tempo stesso ciascuno porta se stesso, e quindi accettare questo e capirlo è molto importante”.
Una citazione che riporta il discorso alla base: accettazione, uguaglianza, differenze che diventano ricchezza. Qui sta il punto informativo e, insieme, l’aspetto umano. Se il cinema ha una funzione civile, è proprio questa: farci entrare in vite che non sono la nostra, per capirle meglio. Roma, città dalle mille voci, ne è un laboratorio naturale.
Quando il sindaco parla di “varietà”, indica una realtà che i romani conoscono ogni giorno. Quartieri diversi, storie diverse, la stessa cittadinanza. Il grande schermo può cucire i fili, perché normalizza ciò che è già normale: il pluralismo.
Da qui discende una linea pratica. Se l’inclusività è “un valore importantissimo”, lo diventa anche nelle politiche culturali, nelle rassegne, nella composizione delle giurie, nella scelta dei titoli da promuovere.
Non è un vezzo, è un criterio di qualità pubblica. E non riguarda solo gli addetti ai lavori: tocca le scuole, le biblioteche, i centri di quartiere, i festival diffusi. La cultura che funziona è quella che non lascia indietro nessuno.ù
Resta una domanda, più che legittima: quanto siamo disposti, come pubblico, a farci cambiare dal film che guardiamo? Se la risposta è “abbastanza”, allora la città ha già fatto un passo avanti. E il cinema, stavolta, non ha solo intrattenuto: ha spostato lo sguardo di un passo.
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