Nel 1847 l’Europa è in fermento. Alexandre Dumas pubblica Il conte di Montecristo, Emily Brontë sconvolge l’Inghilterra con Cime tempestose, Mameli scrive i versi che diventeranno Fratelli d’Italia. È un anno in cui la passione, la libertà e l’ardore romantico trovano nuove forme in ogni arte. In quello stesso clima nasce I Masnadieri, l’opera con cui Giuseppe Verdi affronta il primo dramma teatrale di Friedrich Schiller, Die Räuber (I briganti, 1781), trasformandolo in un racconto musicale di disperazione, amore e colpa.
Quando Verdi comincia la composizione, si sta ancora riprendendo dalla delusione per la fredda accoglienza riservata al suo Macbeth. Il pubblico ottocentesco non era pronto a una tragedia priva di lieto fine, eppure proprio da quel rifiuto nasce un nuovo impulso creativo. L’occasione arriva grazie al direttore del londinese Her Majesty’s Theatre, Benjamin Lumley, che commissiona a Verdi un’opera destinata a segnare il suo debutto in Inghilterra.
A Londra, Verdi trova un cast d’eccezione: il basso Luigi Lablache, il tenore Italo Gardoni, il baritono Filippo Coletti e soprattutto il soprano svedese Jenny Lind, celebre come “l’usignolo di Stoccolma”. La Lind, virtuosa di straordinaria sensibilità, era la stella dell’Her Majesty’s e Verdi decise di scrivere per lei una parte che potesse esaltare la purezza e la forza della sua voce.
Non era la prima volta che Verdi si confrontava con Schiller. Dal drammaturgo tedesco aveva già tratto Giovanna d’Arco e più tardi avrebbe tratto ispirazione per Luisa Miller e Don Carlos. Tuttavia, I Masnadieri rappresentano il suo incontro più diretto con lo spirito dello Sturm und Drang, il movimento che esaltava la ribellione dell’individuo contro l’ordine costituito e la violenza delle passioni.
Per il libretto, Verdi si affida all’amico Andrea Maffei, letterato e traduttore proprio delle opere di Schiller. Nonostante la fiducia reciproca, il risultato non fu tra i più felici. Maffei, non essendo un librettista di mestiere, consegnò un testo farraginoso e cupo, dove l’orrore e l’eccesso sfioravano talvolta il grottesco. Tuttavia, dietro quelle imperfezioni formali, si muove un’idea potente: quella di un’umanità travolta dal conflitto tra amore e violenza, perdono e dannazione.
Il preludio orchestrale, affidato al violoncello solista, segna da subito la differenza rispetto alle opere precedenti. È un’introduzione intima, malinconica, scritta da Verdi per valorizzare l’arte del violoncellista Alfredo Piatti, amico personale del compositore. L’atmosfera è sospesa, quasi elegiaca: un presagio della tragedia imminente.
La vicenda si apre con Carlo Moor, giovane ribelle bandito dal padre per la sua vita dissoluta. In attesa del perdono paterno, riceve invece una lettera, scritta dal fratello Francesco, che lo inganna: il padre lo minaccia di morte se farà ritorno. Tradito e furente, Carlo si unisce a una banda di briganti, giurando vendetta.
Francesco, nel frattempo, trama contro il padre Massimiliano, spinto dal desiderio di potere. Fa credere al genitore che Carlo sia morto, provocandone il dolore e la morte per rimorso. La giovane Amalia, nipote e promessa sposa di Carlo, piange la perdita dei due uomini, mentre Francesco tenta invano di conquistarla.
La storia procede tra duelli morali e fisici, fughe nella foresta, falsi riconoscimenti e vendette. Il ritorno di Carlo, travolto dal senso di colpa e dalla disperazione, culmina nel tragico finale: egli uccide Amalia per sottrarla all’infamia e si consegna alla giustizia. È una conclusione di cupa grandezza, dove il Romanticismo verdiano si afferma nel suo volto più estremo: nessuna redenzione, solo la consapevolezza del destino.
Dal punto di vista drammaturgico, I Masnadieri presentano numerose debolezze. I personaggi appaiono squilibrati: Carlo, troppo fragile per essere un eroe, e Francesco, talmente malvagio da sembrare una caricatura. Il coro dei briganti, che in Schiller rappresentava la ribellione collettiva, diventa un gruppo di figure marginali, ridotte a cantare versi che mescolano terrore e ironia (“Le rube, gli stupri, le stragi, le morti / per noi son balocchi, son meri diporti”).
Eppure, nonostante le imperfezioni, la musica di Verdi riesce a dare vita e coerenza al dramma. La scrittura per la Lind è mirabile: arie piene di luce, estensioni vertiginose, abbellimenti che, pur nati per mostrare la sua bravura, non tradiscono mai il senso della scena. L’opera rinuncia a un vero coro iniziale, preferendo concentrarsi sulle voci individuali e sui conflitti interiori. È una scelta innovativa, quasi teatrale, che anticipa il linguaggio più moderno del Verdi maturo.
La tensione tra forma e sentimento, tra bel canto e dramma, attraversa ogni pagina della partitura. Dietro la veste romantica e le atmosfere gotiche, si percepisce il desiderio di Verdi di spingersi oltre il melodramma convenzionale, di esplorare il lato oscuro dell’animo umano.
I Masnadieri non sono tra le opere più celebrate di Verdi, ma rappresentano una tappa fondamentale della sua evoluzione artistica. In essi convivono la forza teatrale del primo Verdi e la profondità psicologica che esploderà nei capolavori successivi. È un’opera di passaggio, inquieta, che testimonia l’incontro tra due mondi: il Romanticismo tedesco e la passione italiana.
Ascoltarla oggi significa riscoprire un Verdi che sperimenta, rischia, si misura con la tragedia europea per eccellenza. E, dietro le sue contraddizioni, si intravede il vero tema dell’opera: non la ribellione dei briganti, ma la ricerca di libertà dell’uomo contro il proprio destino.
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